Me ne avevano parlato, raccontato, fantasticato, più volte.
Di un cibo d'altri tempi, d'altri sapori, ma soprattutto di un'altra cultura e civiltà.
Di un uso, che era prima di tutto un rito, e poi "vita".
Nell'altro secolo, nell'altra epoca, in quell'epopea che è stata la civiltà contadina mezzadrile, il maiale lo si allevava alla stregua degli altri animali di cortile.
Con il maiale c'era il concentrato dei rapporti e dei valori che stavano alla base della vita nei poderi. Con il maiale si dividevano i frutti del campo, il mangiare dell'orto. Non c'erano avanzi sulle tavole dei contadini, quindi il mangiare, con il maiale, veniva diviso primo di mettersi a tavola.
Ma quando era il momento, ognuno doveva fare la sua parte, anche il maiale.
In una struttura sociale dove la dedizione al dovere pregnava ogni rapporto, e il dolore poteva essere momento di festa, e la festa poteva essere momento di dolore, l'uccisione del maiale era un rito propiziatorio e ringraziatorio al tempo stesso.
Dalla cruenta morte del maiale, scannato su di una tavola, con tutti gli uomini della casa a reggerlo, e i ragazzi e i bambini ad assistere. Al pericolo dell'incontrollata paura della bestia legata e ferita, si compiva un atto collettivo che occupava tutti, dall'alba all'ora di pranzo.
Il paiolo grande con l'acqua messa a bollire. Il maiale sgozzato, e il sangue subito raccolto con una scodella.
Quindi steso sul tavolone per la pelatura, fatta con la lama del coltello ed acqua bollente.
Poi appeso per i tendini, e aperto in pacche, con le budella fatte calare nella tinozza, e poi pulite, sulla concimaia, con l'aceto.
Fegato, polmoni e cuore appesi in cantina.
Per pranzo le donne di casa cucinavano il primo maiale pronto, il sangue raccolto nella scodella.
A casa mia cucinavano un piatto senza nome, con il sangue lessato, ciccioli di grasso e magro di maiale, cipolla ed un po' di scorza d'arancia. Anche se nel sanminiatese era diffuso il buristo, o mallegato. Un insaccato fatto con il sangue rappreso. Ma non veniva preparato il giorno dell'uccisione del maiale, ma il giorno della "pista", quando la carne di maiale veniva spezzata e lavorata.
Nel pistoiese, i migliacci venivano cucinati lo stesso giorno in cui veniva scannato il maiale.
Si preparava un composto, piuttosto liquido, con il sangue del maiale ancora caldo, e un brodo di carne. Si aggiungeva della farina quel tanto che bastava a dare al giusta consistenza, un po' di olio d'oliva, un po' di scorza di limone e dei pinoli.
Il composto veniva messo in una padella su fuoco vivo e si realizzavano delle focacce molto sottile e morbide, che oggi chiamiamo crepes. Si spolveravano con dello zucchero, o vi si spargeva un po' di miele, se si preferivano dolci, o del formaggio grattugiato se si preferiscono salate, per poi arrotolarle e mangiarle ancora calde.
Alla festa di Masiano hanno uno stand dove li cucinano per 1 euro.
Il cuoco mi mostra tutti i passaggi.
Un po' di strutto sciolto passato sulla padella per non far attaccare il migliaccio.
Con il romaiolo prende il composto pronto e lo mette sulla padella, avendo cura di ruotarla per spanderlo su tutto il fondo.
Pochi secondi sulla fiamma del fornello, e poi fa volteggiare in aria il migliaccio per farlo cuocere anche dall'altra parte.
Tutti si fanno cospargere abbondantemente di zucchero i migliacci.
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