Pomeriggio in riva al mare.
Vedendo i bambini che, usciti dall'acqua si giravano un po' intorno per trovare cosa fare, propongo loro di giocare con le palline.
—Non ce l'abbiamo!—, è stata la prima risposta.
—Dove le vendono?—, chiedo.
—Passano i marocchini. Ce l'hanno loro.—.
Tutti ci mettiamo a scrutare la spiaggia, cerchiamo...
—Eccolo! Laggiù!—, è stato avvistato un marocchino con le palline.
Gli corriamo dietro e le compriamo. Sono un po' sbiadite, e anche un po' grandi per essere delle palline da spiaggia.
Ci sono le foto di motociclette, e non di ciclisti. Ma vanne bene. Tre euro e le portiamo via.
Sono le 5 del pomeriggio, in punto, quando iniziamo a fare la pista.
Con un pallone traccio il percorso, e poi ciascuno ci mette del suo.
Curve paraboliche, trampolino e trabochetto, tunnel ed ostacoli vari.
Anche la retina delle palline viene riciclata per "arricchire" la pista.
In meno di dieci minuti la pista è pronta. A giocare siamo in sei.
Si inizia dal più vecchio, quindi io parto per primo, e poi tutti gli altri cinque.
Nico e Sara, gemelli, fanno la conta a chi parte per ultimo.
Dopo il primo tiro mi ritrovo al quarto posto.
La gara si fa avvincente, e ai primi ostacoli inizia la selezione.
Alla fine del primo giro Alberto è in testa.
Dopo un'ora di gioco, e cinque giri di pista, con già i primi doppiaggi, passa il gelataio.
Pausa merenda...
La gara riprende, e mano mano che continuiamo la piaggia si spopola.
Sono le 19,30 quando decidiamo che potrebbe essere arrivata l'ora di smettere.
In quel momento, dopo oltre due ore di gara, la classifica è la seguente:
Io in testa, seconda Agnese con due giri di ritardo come Nico che è terzo.
Alberto è quarto a tre giri, Sara quinta a quattro giri, Benedetta sesta ed ultima con cinque giri di ritardo.
Dopo cena, per restare allenati, partitella a biliardino.
domenica 31 luglio 2011
venerdì pomeriggio al Nano Verde
Questo è il post che avrei dovuto pubblicare ieri, sabato 30 luglio, ma il satellite ha fatto capricci.
Al contrario, il mare del golfo di Follonica, venerdì, nel tardo pomeriggio, era calmo come non lo era mai stato negli ultimi 15 giorni, ci dicono.
Sassi che il mare ha consumato.
Piccole forme
di ritagli sconosciuti,
dove sono caduti,
come segni sperduti.
Pietre confuse
tra onde e piccoli sentieri
dove il senso lo si trova
dentro un cassetto
di ricordi piacevoli.
venerdì 29 luglio 2011
il cimitero di guerra di Bolsena
La giornata di ieri mi ha visto percorrere su è giù, per alcune volte, il tratto di Cassia a cavallo tra la Toscana ed il Lazio, lasciandomi il tempo per una sosta per una visita.
Sulle sponde del lago di Bolsena, lungo la Cassia, al km 106, ove erano insediati gli elementi necessari al funzionamento del comando del Generale Alexander dopo la liberazione di Roma, e fu qui che il Re Giorgio VI visitò il Generale Alexander alla fine di luglio 1944, sorge il Cimitero di Guerra di Bolsena.
Vi si accede attraverso un sentiero lastricato, a lunghi gradini. Il cimitero è permanentemente aperto e può essere visitato in qualsiasi momento.
In esso sono sepolte le salme di 597 Caduti dell'esercito Britannico che comprendeva anche i soldati provenienti dai paesi del Commonwealth, 40 delle quali non identificate.
Il 3 settembre 1943 gli Alleati sbarcarono sulla terraferma italiana. L'occupazione coincise con un armistizio firmato con gli Italiani, che rientrarono quindi in guerra a fianco degli Alleati.
L'avanzata attraverso il Sud Italia fu rapida, nonostante la tenace resistenza, ma l'avanzata si arrestò per alcuni mesi alla posizione difensiva invernale tedesca conosciuta come Linea Gustav. La linea alla fine cedette nel maggio 1944 e mentre i tedeschi si ritiravano, Roma fu liberata dagli Alleati il 3 giugno.
Dopo essere stati spinti a nord di Roma, i tedeschi fecero la prima sosta a Bolsena, e ad est del Lago di Bolsena ci fu la prima battaglia di carri armati nel giugno 1944 tra la 6a Divisione Corazzata Sudafricana e la Divisione Panzer di Hermann Goering.
Il sito del cimitero fu scelto nel novembre 1944, e le tombe vi furono portate dai campi di battaglia tra Bolsena e Orvieto.
Quasi un terzo degli uomini sepolti a Bolsena erano Sudafricani.
Più tardi, nel cimitero furono portate tombe dall'Isola d'Elba.
Nella cappella dalle forme neoclassiche, c'è un'ulna con un registro delle presenze.
Ci sono riportate molte manifestazioni di rispetto e di ringraziamento.
Ma si leggono anche note sciocche, e, purtroppo, anche considerazioni poco tollerabili...
Sulle sponde del lago di Bolsena, lungo la Cassia, al km 106, ove erano insediati gli elementi necessari al funzionamento del comando del Generale Alexander dopo la liberazione di Roma, e fu qui che il Re Giorgio VI visitò il Generale Alexander alla fine di luglio 1944, sorge il Cimitero di Guerra di Bolsena.
Vi si accede attraverso un sentiero lastricato, a lunghi gradini. Il cimitero è permanentemente aperto e può essere visitato in qualsiasi momento.
In esso sono sepolte le salme di 597 Caduti dell'esercito Britannico che comprendeva anche i soldati provenienti dai paesi del Commonwealth, 40 delle quali non identificate.
Il 3 settembre 1943 gli Alleati sbarcarono sulla terraferma italiana. L'occupazione coincise con un armistizio firmato con gli Italiani, che rientrarono quindi in guerra a fianco degli Alleati.
L'avanzata attraverso il Sud Italia fu rapida, nonostante la tenace resistenza, ma l'avanzata si arrestò per alcuni mesi alla posizione difensiva invernale tedesca conosciuta come Linea Gustav. La linea alla fine cedette nel maggio 1944 e mentre i tedeschi si ritiravano, Roma fu liberata dagli Alleati il 3 giugno.
Dopo essere stati spinti a nord di Roma, i tedeschi fecero la prima sosta a Bolsena, e ad est del Lago di Bolsena ci fu la prima battaglia di carri armati nel giugno 1944 tra la 6a Divisione Corazzata Sudafricana e la Divisione Panzer di Hermann Goering.
Il sito del cimitero fu scelto nel novembre 1944, e le tombe vi furono portate dai campi di battaglia tra Bolsena e Orvieto.
Quasi un terzo degli uomini sepolti a Bolsena erano Sudafricani.
Più tardi, nel cimitero furono portate tombe dall'Isola d'Elba.
Nella cappella dalle forme neoclassiche, c'è un'ulna con un registro delle presenze.
Ci sono riportate molte manifestazioni di rispetto e di ringraziamento.
Ma si leggono anche note sciocche, e, purtroppo, anche considerazioni poco tollerabili...
giovedì 28 luglio 2011
notte a Caprarola
Arrivo a Caprarola con il sole che è da poco scomparso dietro al monte Venere, che si erge dalla cavea vulcanica del Lago di Vico.
Mi aspetta un incontro pubblico, nel palazzo Comunale.
Pochi attimi è sembra farsi subito notte.
Esco dal Municipio che sono quasi le ventiquattro.
Il buio è assoluto, in questo borgo scuro di Peperino e sabbie vulcaniche.
Palazzo Farnese appare maestoso più che mai, con la facciata illuminata dal basso.
Salgo le sue scalinate, e sotto vedo allungarsi, perdendosi nel buio, "lo Deritto", così i caprolatti chiamano la via che taglia in due il paese, salendo fino al palazzo.
La chiesa di Santa Teresa, affogata nel buio della notte, è ancor più suggestiva.
Mentre osservo Caprarola sotto le stelle di questa fresca notte di fine luglio.
Mi aspetta un incontro pubblico, nel palazzo Comunale.
Pochi attimi è sembra farsi subito notte.
Esco dal Municipio che sono quasi le ventiquattro.
Il buio è assoluto, in questo borgo scuro di Peperino e sabbie vulcaniche.
Palazzo Farnese appare maestoso più che mai, con la facciata illuminata dal basso.
Salgo le sue scalinate, e sotto vedo allungarsi, perdendosi nel buio, "lo Deritto", così i caprolatti chiamano la via che taglia in due il paese, salendo fino al palazzo.
La chiesa di Santa Teresa, affogata nel buio della notte, è ancor più suggestiva.
Mentre osservo Caprarola sotto le stelle di questa fresca notte di fine luglio.
mercoledì 27 luglio 2011
la chiesa di San Pietro Apostolo a Radicofani
La chiesa di Radicofani è uno dei passaggi obbligati per i pellegrini che ancora oggi percorrono il vecchio tracciato della via Francigena per recarsi a Roma.
Le origini della chiesa risalgono al XIII secolo, e seppure oggetto di molti interventi, nei secoli, mostra ancora caratteri romanici.
La facciata ha forme semplici, con un portale ricassato e, sopra questo, una bifora, realizzata come opera di ripristino.
Il campanile è moderno.
All'interno, è costituita da una sola navata con copertura a capriate lignee, mentre la parte terminale è più ampia e ha schema basilicale.
All'interno ci sono varie opere, ma quella che mi colpisce di più è una "Madonna col Bambino", statua lignea policroma attribuita a Francesco di Valdambrino.
Le origini della chiesa risalgono al XIII secolo, e seppure oggetto di molti interventi, nei secoli, mostra ancora caratteri romanici.
La facciata ha forme semplici, con un portale ricassato e, sopra questo, una bifora, realizzata come opera di ripristino.
Il campanile è moderno.
All'interno, è costituita da una sola navata con copertura a capriate lignee, mentre la parte terminale è più ampia e ha schema basilicale.
All'interno ci sono varie opere, ma quella che mi colpisce di più è una "Madonna col Bambino", statua lignea policroma attribuita a Francesco di Valdambrino.
martedì 26 luglio 2011
il monumento ai caduti della grande guerra di Radicofani
Qui, nei tanti post del mio blog, il tema dei monumenti ai caduti della grande guerra è ricorrente.
Avendo modo di girare gran parte dell'Italia, e di farlo soprattutto attraverso molti piccoli paesi, spesso lontani dalle grandi vie di comunicazione, si nota che la presenza dei monumenti ai caduti della grande guerra, che in moltissimi casi hanno poi raccolto la memoria anche anche dei caduti delle guerre successive, fino a quelli della seconda guerra mondiale, è quasi sempre molto tangibile.
I monumenti hanno sempre una collocazione molto visibile, nelle piazze principali, se non in "parchi della rimembranza", ideati e realizzati per lo specifico scopo.
Il primo motivo di interesse, è senz'altro il fatto di aver avuto il nonno paterno, di peraltro porto il nome, che ha combattuto la grande guerra, dal giorno del suo inizio fino a quello della sua fine, in fanteria.
Mentre lui, non riesco neppure ad immaginarmi come, sia riuscito ad uscirne vivo ed in salute, milioni di sui coetanei, da ogni parte d'Italia, hanno perso la vita sui campi di battaglia lungo i crinali delle alpi orientali.
Così, spesso, mi ritrovo, quasi involontariamente, davanti a questi monumenti a leggere l'elenco dei nomi dei ragazzi che non hanno fatto ritorno al loro paese.
Scorrendo questi elenchi, subito mi sale la commozione non solo per le vite cadute, ma anche per come hanno vissuto i loro ultimi giorni. Nelle indicibili condizioni delle trincee, al freddo della montagna. Con la neve, con scarso riparo alle intemperie, come alle bombe ed alle pallottole dei soldati austriaci ed ungheresi. Vittime dello sconsiderato sistema di approccio alla guerra di quegli anni, dove i soldati erano della vera e propria carne da macello, la cui vita, di fronte agli obiettivi militari, valeva quanto la baionetta che portavano con se.
Dopo la Grande Guerra il mondo si trovò di fronte all’agghiacciante dato di 9 milioni di caduti e di altrettanti invalidi e feriti. In tutti i paesi coinvolti nel conflitto si sentì il bisogno di trovare forme di elaborazione collettiva del lutto. L’orrore spinse alla pietà della memoria e al desiderio di ricordare quanti avevano perso la vita in nome di ideali nazionali. In tutta Europa sorsero monumenti e lapidi.
Purtroppo la successiva storia del continente dimostrerà che le "testimonianze a futura memoria" non servirono a far cessare l’orrore della guerra. Solo pochi decenni dopo il primo conflitto mondiale, infatti, un’altra guerra, ancor più cruenta e devastante coinvolgerà il mondo intero.
In Italia, l'inizio della realizzazione di monumenti in memoria dei caduti della Grande Guerra, può essere fatto coincidere con il 27 ottobre 1921, quando vennero trasportate undici salme nella Basilica di Aquileia. Una donna di Trieste, Maria Bergamas, il cui figlio aveva disertato l’esercito austriaco per combattere nelle file italiane, cadendo in battaglia senza che il suo corpo venisse mai identificato, scelse il corpo di un soldato. Il treno che trasportava l’Ignoto viaggiò sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma, riverito dalla popolazione al passaggio nelle varie stazioni.
Il 4 novembre 1921, con una solenne cerimonia, il corpo dello stesso fu solennemente tumulato nel sacello posto sull’Altare della Patria a Roma, progettato alla fine dell’Ottocento per commemorare la memoria di Vittorio Emanuele II. Divenne "Il Milite Ignoto", rappresentante di tutti i caduti della Grande Guerra, a cui fu concessa la medaglia d’oro.
Questo è il monumenti ai caduti di Radicofani, nei giardini pubblici del Maccione.
Su di esso, diviso su due lapidi, c'è l'elenco con i nomi di 83 ragazzi di Radicofani che persero la vita combattendo la Grande Guerra.
38 di loro morirono in battaglia, 3 nei campi di prigionia, 27 di malattia e 15 i dispersi.
9 di loro portavano il cognome Maccari, 7 i Fabbrizzi e 7 i Rappuoli.
In quegli anni Radicofani contava circa 2.800 abitanti, più del doppio di oggi.
Su di una delle lapidi del monumento sono raccolti anche i nomi dei caduti durante la seconda guerra mondiale, che furono 36, tra militari, partigiani e civili. Questi ultimi ben 19.
I partigiani ricordati nella lapide sono il carabiniere e partigiano Simar Vittorio Tassi e del giovane Renato Magi. Fucilati delle SS il 17 giugno del 1944, in località San Piero d'Orcia.
Avendo modo di girare gran parte dell'Italia, e di farlo soprattutto attraverso molti piccoli paesi, spesso lontani dalle grandi vie di comunicazione, si nota che la presenza dei monumenti ai caduti della grande guerra, che in moltissimi casi hanno poi raccolto la memoria anche anche dei caduti delle guerre successive, fino a quelli della seconda guerra mondiale, è quasi sempre molto tangibile.
I monumenti hanno sempre una collocazione molto visibile, nelle piazze principali, se non in "parchi della rimembranza", ideati e realizzati per lo specifico scopo.
Il primo motivo di interesse, è senz'altro il fatto di aver avuto il nonno paterno, di peraltro porto il nome, che ha combattuto la grande guerra, dal giorno del suo inizio fino a quello della sua fine, in fanteria.
Mentre lui, non riesco neppure ad immaginarmi come, sia riuscito ad uscirne vivo ed in salute, milioni di sui coetanei, da ogni parte d'Italia, hanno perso la vita sui campi di battaglia lungo i crinali delle alpi orientali.
Così, spesso, mi ritrovo, quasi involontariamente, davanti a questi monumenti a leggere l'elenco dei nomi dei ragazzi che non hanno fatto ritorno al loro paese.
Scorrendo questi elenchi, subito mi sale la commozione non solo per le vite cadute, ma anche per come hanno vissuto i loro ultimi giorni. Nelle indicibili condizioni delle trincee, al freddo della montagna. Con la neve, con scarso riparo alle intemperie, come alle bombe ed alle pallottole dei soldati austriaci ed ungheresi. Vittime dello sconsiderato sistema di approccio alla guerra di quegli anni, dove i soldati erano della vera e propria carne da macello, la cui vita, di fronte agli obiettivi militari, valeva quanto la baionetta che portavano con se.
Dopo la Grande Guerra il mondo si trovò di fronte all’agghiacciante dato di 9 milioni di caduti e di altrettanti invalidi e feriti. In tutti i paesi coinvolti nel conflitto si sentì il bisogno di trovare forme di elaborazione collettiva del lutto. L’orrore spinse alla pietà della memoria e al desiderio di ricordare quanti avevano perso la vita in nome di ideali nazionali. In tutta Europa sorsero monumenti e lapidi.
Purtroppo la successiva storia del continente dimostrerà che le "testimonianze a futura memoria" non servirono a far cessare l’orrore della guerra. Solo pochi decenni dopo il primo conflitto mondiale, infatti, un’altra guerra, ancor più cruenta e devastante coinvolgerà il mondo intero.
In Italia, l'inizio della realizzazione di monumenti in memoria dei caduti della Grande Guerra, può essere fatto coincidere con il 27 ottobre 1921, quando vennero trasportate undici salme nella Basilica di Aquileia. Una donna di Trieste, Maria Bergamas, il cui figlio aveva disertato l’esercito austriaco per combattere nelle file italiane, cadendo in battaglia senza che il suo corpo venisse mai identificato, scelse il corpo di un soldato. Il treno che trasportava l’Ignoto viaggiò sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma, riverito dalla popolazione al passaggio nelle varie stazioni.
Il 4 novembre 1921, con una solenne cerimonia, il corpo dello stesso fu solennemente tumulato nel sacello posto sull’Altare della Patria a Roma, progettato alla fine dell’Ottocento per commemorare la memoria di Vittorio Emanuele II. Divenne "Il Milite Ignoto", rappresentante di tutti i caduti della Grande Guerra, a cui fu concessa la medaglia d’oro.
Questo è il monumenti ai caduti di Radicofani, nei giardini pubblici del Maccione.
Su di esso, diviso su due lapidi, c'è l'elenco con i nomi di 83 ragazzi di Radicofani che persero la vita combattendo la Grande Guerra.
38 di loro morirono in battaglia, 3 nei campi di prigionia, 27 di malattia e 15 i dispersi.
9 di loro portavano il cognome Maccari, 7 i Fabbrizzi e 7 i Rappuoli.
In quegli anni Radicofani contava circa 2.800 abitanti, più del doppio di oggi.
Su di una delle lapidi del monumento sono raccolti anche i nomi dei caduti durante la seconda guerra mondiale, che furono 36, tra militari, partigiani e civili. Questi ultimi ben 19.
I partigiani ricordati nella lapide sono il carabiniere e partigiano Simar Vittorio Tassi e del giovane Renato Magi. Fucilati delle SS il 17 giugno del 1944, in località San Piero d'Orcia.
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