E’ l’alba sul golfo di Aqaba quando partiamo.
Il Wadi Araba si estende, per 166 km, tra il Mar Morto a nord e il Golfo di Aqaba a sud, segnando il confine fra lo stato di Israele a ovest e la Giordania a est. Questa valle di origine fluviale fa parte dell'estrema sezione settentrionale della struttura tettonica della Rift Valley.
La strada che seguiamo costeggia il confine con Israele, ed è costellata di altane e postazioni militari.
Percorrendola incontriamo i camion con il potassio del Mar Morto.
Piccoli villaggi, un po’ di agricoltura e tanto deserto.
Fino ad arrivare a degli stagnoni, che non è ancora il Mar Morto, ma il presagio di quello che ne sarà, in futuro.
Bacini per la decantazione dei sali, pale escavatrici tra dune di polvere biancastra, e poi, più avanti le fabbriche dei concimi. Del potassio caricato su lunghi camion, che risalgono fumanti la depressione fino al porto di Aqaba.
Infine il Mar Morto, azzurro con i bordi bianchi.
Alla frontiera, dopo il ponte di Allenby, il delirio di un paese sull'orlo di una crisi di nervi. Chi tira sassi non costruisce la propria casa di vetro, ci aveva detto Wael parlando del confine con i “cugini” israeliani.
Ci impieghiamo quasi due ore a passare i controlli, e qualcosa capiamo.
Magari non ce l'hanno con noi, ma gioco è quello, e non può che valere per tutti.
Qui adesso ci siamo noi, come mai e perché non ha più nessun senso. Tanto ormai è impossibile tornare indietro. Sei rimasto di qua? Non ti mando via, non voglio che mi accusino di pulizia etnica. Ma però, per la mia sicurezza ti controllo e ti ricontrollo, fino a sfinirti, fino a toglierti la voglia di andare avanti e indietro. Così, magari ti decidi da solo a fermarti da una parte, meglio se l'altra.
Nel piazzale pulman che scaricano orde di donne vestite di nero e bambini, a grappoli appese alle loro grosse gonne. Lasciano che i loro enormi bagagli vengano inghiotti in un landrone, si fanno maltrattare dalle estenuanti file, battute dalle folate radenti ed umide di potenti polverizzatori d’acqua. Tengono duro come vecchie penitenti in processione, strisciano in silente preghiera in un labirinto di blocchi e controlli, tra visitatori stranieri, gabbiotti per il continuo controllo dei documenti e fettucce blu che ne guidano il lento movimento.
Stanno lì, nulla li scompone, niente, sembra li, fa desistere dal loro intento.
Noi ci ritroviamo dentro questo delirio che prova a schiacciare secolari rancori. Il nostro pulman ci ha scaricato assieme a loro, ed un altro ci aspetta dalla parte opposta, con una nuova guida. Nella terra di mezzo, in questa zona franca e di nessuno, ci sentiamo soli, nel marasma di affari non nostri, ma senza particolari attenzioni di riguardo.
Buttati nella mischia, con l’obiettivo di arrivare dall’altra sponda, chi ci riuscirà.
Usciti, in territorio israeliano, la strada attraversa un’ampia area di terra sabbiosa, e ti sembra proprio l’epilogo di questo delirio.
—Ma di cosa stanno litigando?—, mi chiedo.
Gerico, la città più vecchia del mondo, è là in fondo, la si vede dalla frontiera, verdeggiare pallidamente oltre le dune bianche di sali di potassio, ed oltre i fili spinati in successione dei campi minati, sotto spoglie colline di roccia.
Gerico era la scommessa messa sul tavolo degli accordi di Oslo, la via alla pacificazione, alla creazione dello stato palestinese, e allo sviluppo di una propria economia. La coltivazione delle aree desertiche con le stesse tecniche israeliane, il turismo religioso ed archeologico, il gioco d'azzardo ed il commercio transfrontaliero.
Alla fine degli anni '90, subito dopo gli accordi di Oslo sono arrivati tanti capitali stranieri, soprattutto russi, ma anche rimesse degli stessi palestinesi che si sono costruiti la casa proprio a Gerico, attorno all'hotel Intercontinental.
Ma quasi subito il Casinò è fallito, le fattorie hanno sofferto la concorrenza dei prodotti israeliani, e così molti capitali se ne sono andati. Gli scavi archeologici della Gerico antica sono stati abbandonati. Solo il turismo religioso tiene, con i torpedoni che scaricano pellegrini cristiani che salgono al monte della tentazione.
Lungo la strada che porta a Gerusalemme ci sono molti accampamenti di beduini. Sono rimasti dentro i nuovi confini del 1967, e non se ne vanno. Pur aiutati come possono dall'autorità palestinese, fanno una vita miserrima, ma nonostante ciò hanno deciso di restare. Sanno che se attraversano il Giordano non potranno più tornare indietro. Qui qualcuno pascola capre, qualcuno lavora nei kibbutz ebrei che nuovi e verdi di erba ed alberi sono stati costruiti sopra alle colline, altri realizzano un po' di piccolo artigianato che vendono ai turisti.
Gerusalemme è adagiata, come una candida coperta ricamata di oro di pinnacoli, sui crinali delle colline che abbiamo di fronte.
La guida ci porta a Betlemme, a vedere la basilica della Natività.
Betlemme si trova a circa 10 km a sud di Gerusalemme, ad un'altezza di oltre 700 m sul livello del mare, ed il primo impatto da risolvere è quello con il muro.
Lo vedi, là in fondo, a costeggiare la strada che sale la collina di Betlemme. Grigio di cemento nuovo, ben fatto e ben tenuto. Alto più di 8 metri, più delle case oltre di esso. Ti rendo conto che non è una formalità, un contentino a qualche frangia della pubblica opinione locale, un paravento politico. Ma reale, concreto, con pochi sorvegliatissimi accessi.
Chi ci sta dietro è chiuso in casa, davvero.
Così mi aspetto un ambiente oppresso, una vita grama, poche possibilità, poco movimento. Poi mi rendo subito conto che non è il villaggio depresso che pensavo di dovermi aspettare, anzi. Vedi movimento, di gente e di soldi. Subito cartelloni pubblicitari di prodotti moderni, le tribune nuove di un piccolo stadio, e poi case ben costruite, auto per le strade, con fondo e marciapiedi ben tenuti. E ancora negozi, molti, ben forniti, e non solo per turisti, anzi. Sono soprattutto per gli acquisti per la vita di tutti i giorni.
Magari il muro li tiene segregati. Per uscire devono dimostrare di avere un motivo valido, così da ottenerne il permesso. Quando escono i loro mezzi vengono perquisiti a fondo. Ma dentro la loro enclave, sono apparentemente liberi. Se ne hanno capacità, possono crescere socialmente ed economicamente.
Ma la libertà non ha prezzo, e poi, mi fanno notare che, per farmi una più ampia opinione, dovrei vedere i campi profughi.
La Moschea di Omar è stata costruita nel 1860 per commemorare la visita del califfo Omar a Betlemme, al momento della sua conquista da parte dei musulmani. È l'unica moschea di Betlemme.
Mentre visitiamo la Basilica della Natività, invasa da comitive di turisti spagnoli, giro sul web, già, perché qui, che sia Israele o territorio occupato, ci sono, ovunque porte WiFi aperte e gratuite. Intanto scopro che la mia San Miniato è nel lungo elenco di città del mondo gemellate con Betlemme, e che il nostro attuale presidente del consiglio, in visita qui a Betlemme lo scorso anno, non si era accorto del muro.
Henry Matar, la nostra guida arabo-cristiana, ci introduce in quello che sarà la costante della nostra permanenza a Gerusalemme attraverso i luoghi sacri della cristianità.
Nel labirintico intreccio di “proprietà” dei luoghi santi.
La grotta della Natività, è una cripta sotto l’abside principale della basilica, ed è il luogo in cui, secondo la tradizione cristiana, ha avuto luogo la nascita di Gesù. Il punto è simbolicamente segnato da una stella d'argento in cui è incisa, in latino, la frase «Qui dalla Vergine Maria è nato Cristo Gesù».
La proprietà esclusiva di questa parte della grotta, così come del resto della basilica, a parte uno spazio riservato alla Chiesa apostolica armena, è della Chiesa greco-ortodossa.
Nella grotta si trova anche il luogo in cui era situata la mangiatoia in cui Maria depose il bambino Gesù subito dopo la nascita. La proprietà esclusiva di questa parte della grotta è dei Padri Francescani della Custodia di Terra Santa.
Dopo cena, tour autogestito con i compagni di viaggio della città vecchia, la sera del primo venerdì di Ramadan.
La Porta Damasco è il centro di una festa. Giovani arabi che sulle sue scalinate si sono radunati per suonare, ballare, mangiare bere e stare in compagnia.
Entriamo nel suk cittadino. I negozi lungo la strada principale della città, sulla traccia del vecchio decumano romano, oggi chiamata ElWad HaGai, sono aperti.
Veniamo avvolti da odori e frastuono. Dalla folla di arabi appena usciti dalla spianta delle moschee in cui è da poco terminata la preghiera del venerdì, che risaliamo controcorrente. E poi cibo preparato e venduto in strada, immancabile come i gruppi di soldati israeliani armati.
L’atmosfera è elettrica, la folla è un fiume in piena, che rumoreggia, e, inutile negarlo, una certa inquietudine la mette. La presenza massiccia dei soldati armati da una parte tranquillizza, dall’altra intimorisce. Magari nessuno si permetterebbe di toccarci, basterebbe alzare la voce per farsi notare dai soldati, ma se ci fosse un pazzo pronto con brutte intenzioni, sarebbe una carneficina, perché questi sono sicuro che prima di chiedersi cosa sia successo hanno già finito i caricatori che hanno addosso.
Ad un certo punto ci stanchiamo di risalire la corrente e deviamo a destra, e dopo un’altra deviazione, sempre a destra, per strade molto meno trafficate, ci ritroviamo alla Porta Damasco.
Nelle strade antistanti, vediamo gli arabi salire, non capiamo con quale ordine, apparentemente il primo pronto a partire, su una interminabile fila di pulman, che li riporterà a casa.
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