alba a pierino

alba a pierino

lunedì 6 settembre 2010

sesta, ed ultima, pagina di "Terra"

Torrenieri (SI),
valle del torrente Asso, giovedì 2 settembre 2010, ore 14,00.



Stasera si conclude la ritrascrizione del racconto "La Carovana del Re".



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(segue dal post di ieri)

III.
Così il tempo aveva condotto fino a me quel Giovanni.

In fondo mi resi conto che più che fare un favore a Franco lo avrei fatto a me. Il lavoro con i frantoi era troppo per poterlo fare tutto da solo. Fino ad allora avevo avuto fortuna. Senza guasti e senza incidenti ero riuscito a fare la stagione intera senza scontentare nessuno e guadagnarci qualcosa.
Ma il sonno che perdevo era troppo, la fatica spesso mi chiudeva gli occhi mentre guidavo. Quando potevo mi fermavo un'oretta a sonnecchiare, ma le più volte dovevo correre e basta. I rischi che avevo corso, a pensarci a mente calma, erano da incoscienti. In un attimo avrei perso tutto, olive, camion e forse anche la vita stessa. Ma la mente calma è facile trovarla adesso, che sono qui ad osservare quella carovana di oggetti e ricordi che ho davanti agli occhi.
Allora forse non avevo il tempo per fermarmi, per far calmare la mente e mettermi a pensare ai rischi che correvo. Correvo e basta. Ad inseguire l'attimo successivo. Bruciavo l'oggi, bramoso di un domani nel quale poi adesso mi accorgo di non aver mai creduto. Perché pensavo ad un domani troppo immediato, a quell'attimo successivo, e lo affrontavo quasi sempre come fosse l'unico.
Senza un'idea organica e realistica di quella che poteva o doveva essere la mia vita all'indomani.
Come ad affrontare sempre nuove curve, senza tanto preoccuparmi di dove portava la strada, col solo pensiero ad un'ora di arrivo, e come unico obiettivo il superamento di ogni metro di strada, nella soluzione in cui esso mi si poneva davanti.
Ma adesso sono seduto qui, su questa zolla, di una terra che ho rivoltato anch'io, ad osservare i segni della mia esistenza. Il camion bianco comperato al consorzio di Castello, il furgone azzurro acquistato da un altro povero disperato come me, che mi disse che aveva deciso di farla finita con quell'insensato lavoro, la casa colonica con il vicino fienile ed ultimo quel dannato aratro, oggi tutta ruggine e polvere, stanno lì a raccontare la mia vita.
Li osservo e sono pervaso di ricordi, sommerso da mille immagini, dalle sagome irriconoscibili di mille e più persone che ho conosciuto. Quando poi, irritato dalla forte e chiara luce del sole che abbaglia queste colline, chiudo gli occhi, subito torno col pensiero a quando ero ragazzo e tutto è cominciato. Le immagini si fanno nitide e mi vedo dentro alla casa, oggi in rovina, che abitavo da bambino.
La cucina, grande e luminosa, era al primo piano e aveva tre finestre che davano sulla scarpata spoglia ed erosa dall'acqua, posta parallelamente alla casa, guardando verso il sole. Aveva forma di un quadrato appena allungato, e in essa si aprivano le porte di tutte le stanze del piano.
Una scalinata di gradini di pietra, ripidi e levigati, salivano dalla porta d'ingresso direttamente sopra, e due robusti canapi, fissati alle due pareti delle scale, aiutavano a salire. Per la forte ripidità delle scale era difficile salire senza aggrapparsi ai canapi.
Al centro della stanza stava un grande e lungo tavolo. Fatto di tavole massicce e sorretto da sei zampe. Ci sedavamo e mangiavamo a quel tavolo in ventidue. Il nonno Giulio stava a capotavola, con le spalle alle camere delle nostra famiglia. Il nonno Francesco, fratello di mio nonno Giulio, sedeva dall'altro capotavola, dalla parte delle camere della sua famiglia.
Quella domenica aveva cucinato la mia nonna Caterina, era il suo ultimo giorno di turno settimanale. Dal giorno dopo, il lunedì, fino alla domenica successiva, avrebbe cucinato la nonna Iolanda, la moglie di nonno Francesco. Così come si erano accordati i due capocci.
Del tempo ne passò, la casa pian piano si spopolò. Le ragazze, crescendo si sposavano e andavano via, a far nuova famiglia. Ma anche gli uomini presero ad andar via. Lo zio Antonio partì per l'Argentina. Era una tarda mattina di giugno, e tutti quanti noi al completo, anche le mie cugine sposate erano tornate per salutare lo zio, ci eravamo schierati davanti alla casa.
Il nonno Giulio, molto anziano, aveva fatto venire un suo amico fotografo, e si era messo al centro del gruppo. Stava impettito e serio, con al fianco il nonno Francesco e lo zio Antonio tra loro due. Tutti noi ci eravamo allungati in ordine sparso lungo il muro di casa.
Fate un bel sorriso adesso.—, ci disse il fotografo che subito scattò la foto.
Lo zio Antonio, era atteso da un amico che lo avrebbe accompagnato alla stazione di Castello. si mise a salutare e baciare tutti. Mi salutò per ultimo. Mi prese una mano, la strinse fra le sue e mi disse:
Non ti fare fregare, cogli le tue occasioni. Non ti preoccupare di loro, camperanno lo stesso. Non star qui con questi poveri cristi, a grattare briciole da questa terra infame.—.
Io lo fissai negli occhi ma non seppi rispondergli. Lo zio si avviò verso l'amico e quando gli fu vicino si girò verso di noi alzando il braccio per salutarci.
D'un tratto una ventata di polvere ci avvolse. Era uno di quei mulinelli che la brezza del mattino si divertiva ad alzare da quegli aridi scoscesi. La polvere fece chiudere gli occhi a tutti, e quando li riaprimmo lo zio Antonio era già in fondo alla strada, che stava girando dietro alla curva.
Restammo con gli occhi chiusi a guardare, con le nostre facce a bruciare al sole dell'infame state che era appena cominciata. Ma c'era poco da imprecare, era la sola stagione che ci dava da mangiare. Da quel giorno, per molti giorni, fu come se quel nuvolo di polvere non si fosse mai diradato.
Quella polvere continuai per anni ad averla attorno, ad assaporarne il gusto. Era di quell'aratro, materiale ed indomabile, che avrei comperato l'anno dopo. Quando pensavo che l'unico mestiere che sarei stato capace di fare in vita mia era l'aratore. Il tempo era passato ed era giunta l'ora delle macchine qui sulle colline, ed io giovane e forte pensai di comperarmene una e andare "a opera, a giornata".
Me lo sognavo la notte, un aratro bivomere, pesante e trainato, per rivoltare di continuo tutte le zolle che esistevano. Tra queste colline ce ne erano da cavarsene la voglia. Ne venivano fuori di tutte le dimensioni, di tutte le forme e di tanti colori. Era una terra terribile, bruna e grigia, dura e miserabilmente avara.
Se la si vede a fine state, tutta rivoltata al sole, sembra quasi impossibile che sia sensato gettarci un qualsiasi seme. Ma il grano è più tenace di questa terra. Lui sa aspettare l'umido dell'inverno, ha poca fame. Io invece di fame ne avevo tanta, ed il seme della mia speranza in un domani diverso qui, non riuscì a mettere radici.
Arare era il mio lavoro. Aspettavo la stagione asciutta solo per quello. Per il resto odiavo l'estate. Il clima era impossibile su queste colline chiare e brulle, senza un albero, un fresco che sia.
Solo terra.

(fine)


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