Quel giorno realizzai la prima delle mie pubblicazioni, omaggi, per San Valentino.
Stasera, nel rileggerla dopo tanti anni, mi sorprende...
La pubblicazione era costituita da un cofanetto in cartoncino Murillo Fedrigoni, contenente un brano autografo scritto per l'occasione e stampato su carta Effe Fine post Fedrigoni, ed una collezione fotografica dal titolo "Fiori di febbraio", realizzata per l'occasione e costituita da sei stampe fotografiche originali; progettata e realizzata in proprio, in un giorno di tramontana di quel febbraio, in novanta copie numerate e firmate, per gli innamorati che festeggiavano il San Valentino di quell'anno, nella "Trattoria dell'Orcio Interrato" di Montopoli Valdarno, degli amici Luigi e Fulvia.
San Valentino, quattordici febbraio.
E' la festa degli innamorati. Momento per pensieri e slanci che colpiscano e sorprendano la propria persona amata. Ma quando si parla di amore, sappiamo tutti, molto bene, di parlare di una delle cose più misteriose che esistano, forse ancor più misteriosa della vita stessa.
L'amore va oltre ad essa, ne regola il movimento, l'addivenire. Nelle sue forme, è capace di rappresentare il vero motivo della vita. Gli uomini, come concezione di specie, non sono capaci di scoprire e capire i modi dell'amore. Esso è sentimento del quale non si conoscono le regole, ne tanto meno si riesce a dargliene. Come il protagonista del racconto che seguirà.
Egli attraversa, come ciascuno di ha attraversato, e attraverserà, le pene d'amore. Momento di rivoluzione dell'animo. Di notevole vuoto psicologico al quale si è sempre pronti a rispondere con un miscuglio di emotività e razionalità. Sbagliando sempre.
Così accade, che ha risolvere i nostri problemi d'amore non siamo mai noi da soli, ma una serie di azioni mediate dalla globalità della vita, che ci pongono le occasioni che la sensibilità di ciascuno aiuta a cogliere.
L'amore va oltre ad essa, ne regola il movimento, l'addivenire. Nelle sue forme, è capace di rappresentare il vero motivo della vita. Gli uomini, come concezione di specie, non sono capaci di scoprire e capire i modi dell'amore. Esso è sentimento del quale non si conoscono le regole, ne tanto meno si riesce a dargliene. Come il protagonista del racconto che seguirà.
Egli attraversa, come ciascuno di ha attraversato, e attraverserà, le pene d'amore. Momento di rivoluzione dell'animo. Di notevole vuoto psicologico al quale si è sempre pronti a rispondere con un miscuglio di emotività e razionalità. Sbagliando sempre.
Così accade, che ha risolvere i nostri problemi d'amore non siamo mai noi da soli, ma una serie di azioni mediate dalla globalità della vita, che ci pongono le occasioni che la sensibilità di ciascuno aiuta a cogliere.
RACCONTO.
Il freddo si faceva sentire, era vento ghiaccio, flessibile e discontinuo. Di notte, quella notte, era stato sgradita compagnia, fischio modulato che nasceva dalle spoglie chiome degli alberi. E adesso un pallido sole, che a fatica si stava levando sopra i cipressi. Nulla sembrava poter fare per alleviare la fatica nel resistere a quel vento. Troppo era freddo e penetrante.
Era stata, quella notte, difficile e pesante. L'idea del nuovo giorno, la sua attesa, il pensiero di ricominciare da capo, mi aveva tenuto la mente occupata. Il pensiero si modulava e si ricostruiva in maniera continua. Idee soffocate da risultati costruiti con sofferto impegno. Continui tentativi di far strada al dolce oblio del sonno, venivano cancellati dal dolore di pensieri indesiderati. Sogni ad occhi aperti, come cattivi presupposti che esplodevano da dentro buoni propositi.
Quel sole del mattino lo vidi come una liberazione. Non avevo riposato, ed il continuo rincorrersi di pensieri non aveva dato nessun frutto significativo. Nessun aiuto, nessun progetto per poter fare la mia parte in quel giorno così importante per tanto atteso e sperato. Era un'alba sbiadita, un sorgere del sole silenzioso nella campagna attonita, appesantita da quello smodato movimento degli oggetti causato dal vento, ed era troppo presto. Troppo, indefinibile, doloroso e ansioso tempo doveva trascorrere.
Mi appariva sempre troppo lontano l'appuntamento prefissato, che rimandavo di attimo in attimo la partenza. Anche nella speranza che finalmente l'idea prendesse finalmente il sopravvento in quel calderone di pensieri che era in quel momento la mia mente. Ma il gelo che mi stava entrando sotto il cappotto, mi portò al limite dell'insofferenza verso quel mio stato d'animo. Decisi che era meglio mettersi in cammino, con la speranza che una volta giunto sul luogo, le giuste parole per ricominciare mi sarebbero venute fuor di bocca da sole.
Camminavo del mio passo, nonostante sarei arrivato molto in anticipo. D'altronde soffrire il freddo e i cattivi pensieri qui, per strada, o alla Cascina Rossa non avrebbe fatto molta differenza. Se tanto più ci volevamo riconciliare, volevamo ricominciare, non potevo permettermi il rischio di ritardare. Magari anche Lei, poi, poteva arrivare in anticipo. Che peccato sarebbe stato farla aspettare a quel freddo. E se davvero sarebbe arrivata in anticipo, forse potevo metter fine al mio dolore prima del previsto.
Camminavo guardando i miei passi. Sentivo scricchiolare sotto le mie scarpe la terra gelata di quel viottolo. Era un sentiero che per lunghe rette tagliava il fondo valle per risalire verso il poggio della Cascina Rossa. Guadato il rio ai Pietroni, e risalendo la costa a bacìo, cominciai a notare vicino ai miei passi, alcuni piccoli fiori. Erano infiorescenze lievi e minute, portate da erbe rade e stentate nel brullo terreno invernale. Erano piccole gemme, semplici e colorate. Dalle tinte morbide e calde. Il piacere di quella scoperta e della loro vista mi scaldò il corpo, e allontanò il ronzio dei folti pensieri.
Mi misi a raccogliere quei fiori. Pensai che sarebbero serviti all'incontro. Nel raccoglierli anche l'uggia del vento si attenuò in me. Giunsi alla Cascina Rossa con un colorato mazzetto di fiori, che stringevo in una man resa violacea e rigida dal freddo. Lei ancora non c'era. In fondo era ancora presto, e mi misi ad aspettarla. Mi appoggiai all'angolo di quel casolare abbandonato, che dava verso la strada da cui Lei sarebbe giunta. Ma era anche l'angolo più esposto al vento. Quell'alito forte ed incessante, gelido e penetrante mi batteva sugl'occhi, facendoli lacrimare.
D'un tratto mi sentii battere su di una spalla, e mi voltai di scatto, quasi impaurito. Era Lei. Aveva il viso illumuminato da un bellissimo sorriso, ma che subito si rabbrunò.
—Che fai, piangi?—, mi chiese.
—Sì, piango perché mi manca il più bel fior di febbraio - le dissi mostrandole i miei fiori - Ma adesso che l'ho ritrovato lo voglio stringere nel mazzo.—.
Allargai le braccia e la strinsi forte a me, e Lei mi strinse a se ancor più forte.
Il freddo si faceva sentire, era vento ghiaccio, flessibile e discontinuo. Di notte, quella notte, era stato sgradita compagnia, fischio modulato che nasceva dalle spoglie chiome degli alberi. E adesso un pallido sole, che a fatica si stava levando sopra i cipressi. Nulla sembrava poter fare per alleviare la fatica nel resistere a quel vento. Troppo era freddo e penetrante.
Era stata, quella notte, difficile e pesante. L'idea del nuovo giorno, la sua attesa, il pensiero di ricominciare da capo, mi aveva tenuto la mente occupata. Il pensiero si modulava e si ricostruiva in maniera continua. Idee soffocate da risultati costruiti con sofferto impegno. Continui tentativi di far strada al dolce oblio del sonno, venivano cancellati dal dolore di pensieri indesiderati. Sogni ad occhi aperti, come cattivi presupposti che esplodevano da dentro buoni propositi.
Quel sole del mattino lo vidi come una liberazione. Non avevo riposato, ed il continuo rincorrersi di pensieri non aveva dato nessun frutto significativo. Nessun aiuto, nessun progetto per poter fare la mia parte in quel giorno così importante per tanto atteso e sperato. Era un'alba sbiadita, un sorgere del sole silenzioso nella campagna attonita, appesantita da quello smodato movimento degli oggetti causato dal vento, ed era troppo presto. Troppo, indefinibile, doloroso e ansioso tempo doveva trascorrere.
Mi appariva sempre troppo lontano l'appuntamento prefissato, che rimandavo di attimo in attimo la partenza. Anche nella speranza che finalmente l'idea prendesse finalmente il sopravvento in quel calderone di pensieri che era in quel momento la mia mente. Ma il gelo che mi stava entrando sotto il cappotto, mi portò al limite dell'insofferenza verso quel mio stato d'animo. Decisi che era meglio mettersi in cammino, con la speranza che una volta giunto sul luogo, le giuste parole per ricominciare mi sarebbero venute fuor di bocca da sole.
Camminavo del mio passo, nonostante sarei arrivato molto in anticipo. D'altronde soffrire il freddo e i cattivi pensieri qui, per strada, o alla Cascina Rossa non avrebbe fatto molta differenza. Se tanto più ci volevamo riconciliare, volevamo ricominciare, non potevo permettermi il rischio di ritardare. Magari anche Lei, poi, poteva arrivare in anticipo. Che peccato sarebbe stato farla aspettare a quel freddo. E se davvero sarebbe arrivata in anticipo, forse potevo metter fine al mio dolore prima del previsto.
Camminavo guardando i miei passi. Sentivo scricchiolare sotto le mie scarpe la terra gelata di quel viottolo. Era un sentiero che per lunghe rette tagliava il fondo valle per risalire verso il poggio della Cascina Rossa. Guadato il rio ai Pietroni, e risalendo la costa a bacìo, cominciai a notare vicino ai miei passi, alcuni piccoli fiori. Erano infiorescenze lievi e minute, portate da erbe rade e stentate nel brullo terreno invernale. Erano piccole gemme, semplici e colorate. Dalle tinte morbide e calde. Il piacere di quella scoperta e della loro vista mi scaldò il corpo, e allontanò il ronzio dei folti pensieri.
Mi misi a raccogliere quei fiori. Pensai che sarebbero serviti all'incontro. Nel raccoglierli anche l'uggia del vento si attenuò in me. Giunsi alla Cascina Rossa con un colorato mazzetto di fiori, che stringevo in una man resa violacea e rigida dal freddo. Lei ancora non c'era. In fondo era ancora presto, e mi misi ad aspettarla. Mi appoggiai all'angolo di quel casolare abbandonato, che dava verso la strada da cui Lei sarebbe giunta. Ma era anche l'angolo più esposto al vento. Quell'alito forte ed incessante, gelido e penetrante mi batteva sugl'occhi, facendoli lacrimare.
D'un tratto mi sentii battere su di una spalla, e mi voltai di scatto, quasi impaurito. Era Lei. Aveva il viso illumuminato da un bellissimo sorriso, ma che subito si rabbrunò.
—Che fai, piangi?—, mi chiese.
—Sì, piango perché mi manca il più bel fior di febbraio - le dissi mostrandole i miei fiori - Ma adesso che l'ho ritrovato lo voglio stringere nel mazzo.—.
Allargai le braccia e la strinsi forte a me, e Lei mi strinse a se ancor più forte.
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