martedì 2 agosto 2011

viaggio in Giordania, primo giorno


C'è un'aria composta, di certa abitudinaria rassegnazione ad una certa sofferenza, alle ristrettezze, anche fisiche nell'obbligata posizione, di attesa, del "tanto adesso finisce", prima o poi.
Nella convinzione che, una volta passato, una volta finito il volo, c'è ad attenderci quello che aspettiamo. Quello per cui ci siamo messi in viaggio.
Ecco il tempo sospeso.
Tempo sospeso in tutti i sensi, anche nella sostanza, non solo nella forma.


Se anche l'attesa per la partenza, con il suo peregrinare da una fila all'altra, è già un frammento del viaggio, il volo adesso è una pausa. Come un dormire, con occhi aperti ed orecchi vigili.
Come tutti i sonni che si fanno in momenti di attesa, anche questo è labile e leggero.
Dal finestrino si vede qualcosa. E' sfumato, lontano. Però appena si riconoscono le forme tutto cambia, anche se dal corridoio la percezione è limitata.
L'isola di Cefalonia e le altre dello Ionio greco, e poi l'aeroporto di Patrasso, e, più lontano e sfumato, le candide ardite campate del ponte che taglia la stretta e profonda insenatura che separa il Peloponneso dal resto della Grecia.
Allora, penso, la sotto c'è anche Olimpia. Ma dove?
La linea della costa non mi è visibile. Non identifico Pirgos. Però, là a sud-est di Patrasso c'è una nuvola che getta la sua ombra su una terra ocra e verde. Ecco, Olimpia potrebbe essere la sotto.
Chiudo gli occhi, sforzati dal bagliore della luce che s'infila dal piccolo oblò, e comincio ad immaginarmi le rovine della palestra dei lottatori, le colonne abbattute del tempio di Zeus, della lunga spianata dello stadio.


Mi sveglia la voce del pilota.
Ci racconta la partenza, del ritardo dovuto al cambio del velivolo deciso all'ultimo momento, poco prima della partenza. E poi di un vento dal nord che ci sta spingendo la coda e che ci dovrebbe far recuperare un po' del tempo perduto, riducendo questo tempo sospeso.
Poi ci disegna la rotta che sta seguendo, volando a 12 chilometri di altezza alla velocità di quasi 1000 chilometri l'ora, segnando in una carta immaginaria il nome di El Alamain, per indicarci la distesa di sabbia che si sta approssimando davanti alla sua prua. Poi segna Il Cairo per indicare la boa attorno alla quale virerà dopo un lungo tragitto quasi rettilineo, per rispuntare verso nord, doppiando la punta del Sinai, incanalandosi nel braccio del Mar Rosso, per farci toccare terra dove esso termina, o inizia...


Toccheremo terra ad Aqaba, il porto di Simbad, origine e termine di viaggi fantastici, ai limiti del mondo reale come ai limiti di quello immaginato.


Esco tra gli ultimi. Trovo gli altri, come indecisi sulla scaletta dell'aereo. Un vento insistente li scompiglia, e si guardano attorno.
Il vento investe anche me, mi batte sul volto, e mi guardo attorno anch'io. Cerco un motore, sento un gran caldo, ma non sento odori. Non può essere il motore dell'aereo.
Ma allora cos'è? Perché quest'aria è così calda?
Ci allontaniamo dall'aereo. Adesso è nitido. Folate ravvicinate di un vento caldissimo che fa tirare la pelle del volto, asciuga gli occhi. Viene dritto da nord, si è scaldato attraversando tutto il deserto, giù dall'Iran, l'Iraq e poi le sabbie roventi tra la Siria e l'Arabia, si è incanalato nella depressione del Wadi Araba, ed è arrivato qui.
Possente come un generatore d'aria calda per l'essiccazione dei foraggi, con una temperatura prossima ai 50 gradi.
Vento forte, secco e pulito. Non un odore, non un granello di polvere trascinato con se. Aria calda, caldissima, e basta.



Oggi è il primo giorno di Ramadan.
Dall'alba al tramonto i musulmani praticanti osservano un digiuno assoluto, senza cibo, né acqua, né fumo, né sesso. Digiuno che durerà 30 giorni.


Nel pomeriggio i negozi sono chiusi, il traffico limitato. Si vedono girare quasi solo taxi. Anche le carrozze per i turisti sono ferme, e i cavalli sono al pascolo, si fa per dire, visto che si muovono dentro a campi di sabbia.



Visito degli scavi, ruderi e fondamenta dell'antica Ayla, scoperti di recente, tra gli hotel appena fuori il centro della città. Tra gli scavi un dromedario legato ad una corda mangia le foglie di un cespuglio di canne.



Negli spazi più riparati, più nascosti agli sguardi della vicina strada, mucchi di lattine e bottiglie di birra, e liquori. E cumuli di mozziconi di sigarette.
A che serve il digiuno diurno?, mi chiedo.




C'è poca gente in giro, e i caffé, con le loro particolari sedie ed improbabili tavolini, sono deserti.
Nell'aria le note di una musica melodica, struggente, che accompagna una voce maschile, che canta una canzone o forse una preghiera, oppure, probabilmente l'una e l'altra cosa insieme.



E' buio da un po', abbiamo cenato e facciamo due passi sul lungomare. Sentiamo il muezzin dall'alto della torre della Moschea, bianca e illuminata nel cielo nero. E vediamo un gran numero di persone, solo maschi, anche bambini, che arrivano a passo sveltissimo a riempire la Moschea.


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