lunedì 3 gennaio 2011
Joan Mirò a Pisa
Ecco luoghi che mi mancavano da tempo.
Costellazioni, arcipelaghi e scampagnate come mete, vie, passaggi e paesaggi di un viaggio visto con lo sguardo che non solo va oltre la realtà, ma riesce anche a spingersi oltre la fantasia.
Arriva fin dentro l'uomo, che, una volta scomposto ogni meccanismo, trova la semplicità del pensiero che si materializza nella poesia dei segni.
E ti rendi conto che, anche quel momento, non è un punto di arrivo.
Un'opera di Mirò non può mai essere considerata un'opera terminata, ma, casomai, compiuta.
Lui stesso chiedeva che non gli venisse mai domandato "quando ha finito una sua opera?", non dava risposte, perché non ne aveva.
Per lui, importante era "lo choc", il momento, l'evento, la causa che aveva dato il via alla sua opera.
Quel granello di tempo in cui i suoi pensieri avevano trovato un'increspatura negli oggetti che aveva attorno, su cui agganciarsi e svilupparsi attorno ad essa.
Prima c'era "lo choc", da cui aveva inizio il primo segno, e poi, dopo i primi, successivi, lenti segni, scaturiva il titolo, ed allora tutte le forme entravano in sintonia, e l'opera prendeva corpo, con un fluire di segni e colori.
"I miei titoli li trovo via via che lavoro, man mano che incateno una cosa all'altra sulla tela. Quando ho trovato il titolo vivo nella sua atmosfera. Il titolo diventa allora, per me, una realtà al cento per cento, come per un altro artista il modello, ad esempio una donna distesa. Il titolo è, per me, una realtà esatta. JM"
Non ha nessun senso cercare nelle opere di Mirò la traccia che ci renda significativo il titolo che ha dato all'opera stessa.
Diventerebbe fuorviante.
Cercheremmo quelle tracce con i nostri pensieri, il nostro bagaglio, il nostro stomaco.
Ma non avendo i suoi stessi pensieri, la sua stessa storia, e soprattutto altri gusti, non arriveremmo mai a niente, solo ad una profonda delusione per l'infruttuosa ricerca.
Ho provato a immaginarmi una possibile sequenza in cui sono stati realizzati i segni di una delle sue "scampagnate".
Sono stato seduto davanti alla scampagnata V per oltre 20 minuti, mentre ero lì ho cercato anche sul web qualche possibile traccia, indicazione, spunto.
Ma alla fine, tutto quello che mi "impressionava", era che quella apparente confusione senza senso di linee scure e colori spruzzati sparsi all'interno di quella semplice cornice, aveva una forte, appagante poesia.
Fuori da Palazzo Blu, i lungarni pisani sono magnifici come sempre.
Eleganti come nessun altro lungo fiume che io conosca.
Nella sera, non tanto fredda, di quest'inizio anno,
seconda decade del primo secolo del terzo millennio,
scorre un Arno placido,
che dissolve leggermente i contorni dei palazzi e delle luci che si specchiano su di esso.
Parole, poesia, immagini. Grazie! :)
RispondiElimina