alba a pierino

alba a pierino

domenica 14 novembre 2010

nel folto del bosco



L’occhio di Aurelio.
di Riccardo Cardellicchio

L’occhio dà il particolare. Libera la mente.
Forse si è in un bosco incantato.
Regno d’un mondo che non c’è più. Nelle fiabe.
Driadi elfi fate folletti gnomi ninfe satiri.
Rumori lievi.
Silenzi.
Il sole si fa largo a stento. Così la pioggia.
E il vento anima aceri, carpini, querce, gelsi, ontani, salici,
eppoi lo spaccasassi, lo spino di Giuda e il tiglio
e il biancospino e il caprifoglio e l’edera e il ginepro
e la palla di neve e la rosa selvatica e il rovo e il sambuco e la vitalba.
Dov’è la capinera? E l’allodola? E la cinciarella? E la ghiandaia? E la gazza?
Il pettirosso, lo intravedi. Senti colpi regolari. E’ il picchio? E questo canto? è dell’usignolo?
La faina sta distante dalla puzzola e dal topo ragno.
Chi è ghiotto di funghi? E chi di more, ribes, mirtilli, lamponi?
L’occhio dà il particolare. Libera la mente.
Forse il bosco è incanto.
Senz’altro, quello di Aurelio, lo è.



racconto breve
Perché il bosco sa essere più caldo sul crescere
dell’autunno che non certi giorni d’estate,
dove dal caldo si passa al freddo?


Venerdì primo ottobre, mattino.
Scendo da Pierino, lungo la strada inghiaiata. Cammino guardando in basso, come a controllare la giusta collocazione dei sassi. Poche cose mi distraggono, di tanto in tanto, ma di rado, alzo gli occhi davanti a me, come per capire la mia posizione.
In alcuni tratti mi soffermo ad osservare le buche scavate sul ciglio della strada. Quasi sicuramente cinghiali che nel cuore della notte vagano per la radura. Di giorno stanno dentro al bosco, nel folto.
Cammino a passo variabile, seguendo l’onda disegnata dai miei occhi che vagano sul fondo sassoso della strada. La mia camicia scura mi scalda le spalle, investita dal sole d’autunno, che comincia a fare evoluzioni sempre più basse, sempre più brevi. Adesso, al mattino non si leva più tanto presto, anche se la valle si trova sull’asse del suo levare, e velocemente ne accorcia le ombre.

frammento di cielo

gocce di rugiada

giovane fustaia

come pali infissi nel terreno

Arrivo fino alla curva, sotto gli alberi. Qui il sole non ci arriva mai. Anche d’estate, di luglio e d’agosto, qui c’è ombra. I raggi del sole, con i rami che cominciano a perdere le loro prime foglie, cercano di insinuarsi, di arrivare a illuminare i sassi che ho ai miei i piedi, ma le foglie sono ancora troppe, e i raggi del sole si infrangono su di esse. Trasformandole in tante, minute tendine, il colore si fa di un verde brillante, luccicante. I lembi delle foglie si fanno netti, stagliati dalla luce che viene tagliata, fermata o deviata.
Sulla curva si innesta una pista che scende dal bosco. Esclusi i primi metri, il resto della pista, come di questo lembo di bosco, sono nuovi per me. Sento le mie scarpe farsi posto, per poi galleggiare a tratti, sul tappeto di steccoli, foglie secche e verdi, di intreccio di rampicanti, di terra soffice e mobile. Più avanzo e più il bosco sembra farsi silenzioso, più si fa silenzioso più ogni piccolo rumore si distingue dall’altro. Più i rumori si fanno distinti, più riesco a distinguere il colore di ciascun suono.
Il silenzio è alternato, rotto dal ritmo dei miei passi. Ogni mio passo un rumore, ogni rumore un colore, ogni colore un odore. Tutto prende la sua precisa collocazione nell’ascolto, e nella percezione olfattiva. Il suono dei miei passi è collegato alla resistenza che incontra la mia scarpa posandosi. A sua volta, suono e resistenza alla scarpa, si collegano ad un colore. Il colore delle verdi foglie d’edera, o il colore delle brune foglie cadute dagli alberi. Il colore scuro della terra umida, fresca e profumata, o il colore chiaro di sabbie dilavate, ruvide ed inerti.
Avanzo, nella flora avviluppata a se stessa. Con edere che salgono su alberi, e edere che salgono su edere. O edere che avviluppano rami secchi, ed edere che stanno seccando altri rami. Il bosco è verde, del verde vivo dell’umido tepore d’inizio autunno. Ed è verde dappertutto, sorprendentemente verde.

sotto una volta di foglie

fra le radici vive

foglie sparse sul terreno

una pista aperta tra le edere

Da un passo all’altro, il suolo è adesso asciutto, adesso umido. Foglie secche che cadono, foglie verdi ora asciutte, ora coperte di tante, immobili gocce d’acqua.
Mi sposto, cambio direzione. Una frana ha aperto uno slargo tra gli alberi, ci cammino sopra. Il terreno è morbido, i suoni profondi, gli odori intensi, di muschio e di terriccio. Più il passo è cadenzato, ritmato, più si fanno armonici i suoni, e con essi gli odori e l’alternarsi dei colori.
I fusti degli alberi, a tratti slanciati, alti come lunghe lance, sembrano affogare nella volta inestricata di fogliame. Quel cielo di foglie non sembra essere tenuto su dai tronchi degli alberi, ma, al contrario, sembra che quel cielo si impegni, a fatica, a contenere la forza, la voglia di salire alla luce, degli alberi stessi.
Salgo ancora, su piste che mi improvviso sul fianco declive della collina coperta dal bosco. Tra una tronco e l’altro, tra arbusti, su piste segnate dal passaggio degli animali. Tra il fruscio di un rapido passaggio di un uccello tra gli alberi. Salgo tra il suono improvviso e sincopato di lucertole che scivolano sulle foglie secche. Salgo al suono costante e mai uguale dei miei passi.
Salgo e osservo, osservo e raccolgo immagini. Scatti attesi con il desiderio quasi ipnotico di quell’istante di buio davanti al soggetto. Quell’istante in cui, con un occhio chiuso e l’altro aperto dentro all’obiettivo, l’otturatore oscura il mondo intero. Tutto scompare in quel buio, forme, colori e, trattenendo in quell’attimo anche il respiro, anche gli odori. Pure i suoni affogano in quell’attimo, sommersi dal rumore felpato dell’otturatore.
E’ come se il bosco, per quell’istante, enormemente più lungo del suo tempo materiale, cadesse, inghiottito dentro ad un buco nero. Un profondo imbuto, alla cui fine c’è di nuovo la luce, piena e viva, della riapertura dell’otturatore, dell’altro occhio, del respiro che riprendeva regolare, dei suoni del bosco.

veduta a pelo d'erba

presenze su di un tronco invecchiato

passaggi del tempo

ultima stagione di fiori

Cammino, ancora, mentre una foglia, di un ramo pendente, carica di gocce d’acqua, come altre foglie attorno ad essa, sfiora le mie labbra, mentre altre mi sfiorano la guancia, l’orecchio e i capelli. Le gocce sono grandi, turgide. Al contatto con la mia pelle, le gocce esplodono, e si spalmano. Una sensazione di pori rigenerati da quel contatto freddo, e di papille, dopo essermi passato la lingua sulle labbra, sorprese da un gusto indefinito. Mi sentivo quell’acqua raggelare prima sul volto, e poi scaldarsi sulla punta dell’orecchio. E poi scendere, in un impercettibile rivolo, giù lungo il collo, fino al colletto della camicia, dove il minuscolo fremito che l’aveva accompagnata si spegneva.
Mi sono sentito, in quel momento esatto, una parte dell’intorno selvatico, avendone assaporato fin anche il sapore.
Sono rimasto, fermo per un po’, a guardare lo spiazzo che si apre davanti a me, la pista a mezza collina che riconduce a Pierino. La luce del sole, sempre più alto, si sta infilando fra le fronde che dai lati si spingono sopra la pista formando un arco incompleto, un tunnel dal tetto scoperchiato.
Poi qualcosa.
A metà strada tra un rumore e una forma. Un rumore impercettibile, come di fiato, come di respiro corto, e una forma, senza un profilo preciso, buia, confusa dentro l’oscurità del folto della boscaglia.
Ho avuto una sensazione sgradevole e secca in fondo alla gola. Come il retro gusto di quel sapore indefinito assaporato sulle labbra. Sono rimasto fermo, a guardare, con il respiro che si faceva più lungo, e ho iniziato a sollevare con la sola mano destra la macchina fotografica, con il dito indice appoggiato al pulsante dell’otturatore, già pronto, pervaso da un formicolio leggero.

piccole, verdi foglie

la strada che entra nel bosco

terra scura del bosco

primi segni d'autunno

Non so dire se si tratta di paura, non credo. Caso mai sorpresa, di un senso di disallineamento con la mia volontà, di non allineamento con i miei programmi e le mie intenzioni. Come essermi trovato nel posto giusto nel momento sbagliato, nel momento in cui non ero pronto.
Così, mentre mi preparo a cogliere il momento per un’immagine che mi prefiguro sensazionale, penso anche a cogliere il momento per schivare chissà quale sconosciuta insidia.
Nel mezzo di tutti questi pensieri, la forma è sparita, se mai c’è stata. E il rumore è svanito, assorbito dal suono consueto del bosco. Anche la mano ha smesso di salire, di portare all’occhio destro la macchina fotografica, ed anche il dito indice si è rilassato, con il formicolio che si è dissolto, al pari del respiro che è tornato regolare.
Un’illusione? Può darsi.
Ho ripreso a camminare, lungo la pista che riconduce a Pierino. La luce piena investe lunghi tratti, l’ambiente è più asciutto, i rumori più acuti. Profumi di alloro, e di funghi, che spuntano tra la coperta di foglie secche, negli anfratti delle vecchie ceppe o sui tronchi di vecchi alberi in decomposizione. Là dove la luce è più intensa, più fitti colorati ed aperti sono i fiori.
Esco dal bosco, il cielo è azzurro, sporcato da nubi biancastre senza forma…
Dopo tre quarti d’ora, un miscuglio di sensazioni ed un numero, alto ed imprecisato di scatti, il mio viaggio nel folto del bosco si conclude tra gli olivi di Pierino.

edera sul tronco

trame di corteccia

foglie attraversate dalla luce

la luce entra tra gli alberi

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