martedì 28 settembre 2010

a proposito di bosco e di guerra

La storia della Nobel di Carmignano mi ha fatto ricordare un'altra storia di guerra e di bosco.

Nella primavera del 1990, portando via la legna dal bosco di Regli, una valle di fianco al borgo di Cigoli, mi nacque l'idea di un lavoro ambientato in quel luogo. Mi portavo la macchina fotografica con me, e scattavo delle immagini. Al tempo stesso raccoglievo racconti, memorie, ma anche semplici scambi di idee.
Ne nacque una collezione fotografica ed un quaderno-pubblicazione dentro al quale raccolsi quattro racconti, su quattro diversi momenti "di quel bosco".
Uno di questi racconti, a cui detti il titolo Estate 1944, era il racconto, costruito sulle memorie di un uomo che visse quell'esperienza.
Quel lavoro riuscii a farlo con il contributo del Consiglio di Circoscrizione di Ponte a Egola, la ProLoco di San Miniato ed il Comune di San Miniato.
La presentazione, e l'esposizione, la feci nella biblioteca di Ponte a Egola, nel maggio del 1990. La collezione fotografica poi, nel giugno, la esposi anche nella Loggetta del Fondo a San Miniato.

Estate 1944
Correva quell’estate calda ed arida che sarebbe poi passata alla storia per molti fatti e tante particolarità. Non aveva quasi mai piovuto quell’inverno, e quando la stagione estiva arrivò trovò già una campagna arsa e stinta. Tutt’attorno, nei campi, il verde cedeva sempre più al giallo biondo, al polveroso della lunga assenza dell’acqua.
A quei tempi il mangiare era sempre stato poco e la fame tanta. Immaginarsi in quell’anno di guerra cruenta, di bombardamenti e di cannoneggiamenti. La presenza del fronte rendeva pericolosa la presenza ed il lavoro nei campi. Quell’estate non tutti riuscirono a mietere. Eppure quel ragazzino di vent’anni, ma forse neanche, con la faccia pallida e rotonda da slavo con aria zingaresca, continuava quasi sempre impertinente a ripetere: — Abbiamo fame. —.
Parlava anche a nome dei suoi compagni. Una mezza dozzina di russi del battaglione ucraino, mercenari arruolati nelle file dell’esercito tedesco, sbandati e fuggiaschi dopo aver disertato. Poveri cristi che si erano fatti soldati per pochi soldi, e che adesso, impauriti ed affamati, fuggivano dal loro esercito in ritirata e prossimo alla disfatta.
C’era un ordine dei nostri superiori, su precisa richiesta degli alleati, di aiutare e prestare protezione a tutti coloro che uscivano dalle file dell’esercito tedesco. Erano soprattutto i loro stranieri a fuggire. C’erano austriaci e russi, ma soprattutto polacchi e slavi. Dando loro protezione si voleva creare una possibilità a tutti coloro che volevano disertare, indebolendo così le forze tedesche.
Per noi comunque non era un problema da poco. Non si trattava del solo rischio che il nascondere loro disertori comportava per la nostra vita e per le nostre famiglie, ma vi erano anche dei considerevoli problemi di carattere organizzativo ed economico.
Su di noi infatti cadeva il peso della loro sicurezza e l’onere del loro sostentamento. Li nascondemmo in Regli, lì, nascosti nel bosco, c’erano già dei nostri ragazzi renitenti alla leva. Inoltre Regli offriva interessanti vantaggi strategici. L’Egola, a poche centinaia di metri, guadato in caso di pericolo o di vero e proprio attacco, poteva costituire subito un’ottima barriera sulla quale impegnare, con buone possibilità di respingerlo, il nemico. Inoltre, i contadini che abitavano Regli e attorno ad esso costituivano delle ottime e fidate sentinelle. Ma innanzitutto esso si trovava molto vicino al nostro quartier generale, Cigoli.
Cigoli era per noi un borgo fortificato. In quei giorni camion, moto ed ogni altro mezzo a motore lo potevano avere solo i tedeschi o i fascisti. E dall’alto del nostro colle si potevano vedere e udire tutti i movimenti che avvenivano nell’immediato circondario. Potevamo avvistare sia i mezzi che stavano salendo dal piano, da La catena e da Castelvecchio, come quelli che provenivano dalle colline, da San Miniato.
Le notizie, un po’ per la nostra organizzazione, ma anche molto per l’abitudine tutta toscana di fare pettegolezzi, correvano velocemente di bocca in bocca. In pochi minuti tutti venivano a sapere quello che si doveva sapere. Così i nostri potevano essere subito avvertiti e avevano tutto il tempo di agire di conseguenza.
Così, in quell’estate, tenevamo nascosti nel bosco di Regli, oltre ai nostri ragazzi e ai disertori russi, anche un altro paio di sbandati dell’esercito tedesco, che erano di origine austriaca. Stavano tutto il giorno nascosti nel folto e la notte dormivano nei capanni dei carbonai. Qualcuno saliva fino in cima al bosco, subito fuori del quale, ai margini di un’oliveta, c’era un capanno di contadini, di quelli in muratura.
Ma erano in pochi, i più, durante la notte, preferivano restare nella macchia, si sentivano più al sicuro. Noi cercavamo di trattarli meglio che potevamo. Mangiavano quello che mangiavamo noi, o meglio, quello che le nostre mamme preparavano con il poco che riuscivamo a procurarci.
Andavamo dai contadini e nelle fattorie a chiedere quanto era loro possibile darci. Si riusciva a rimediare qualche sacco di grano, che poi macinavamo per farne farina, e poi fagioli, un po’ di patate, qualche chilo di ceci e poco altro. Di carne era meglio non parlarne.
Ma nonostante tutto erano molto indisciplinati. Li avevamo anche armati in principio, ma presto persero la nostra fiducia. Non si sentivano sicuri, era questo il motivo di fondo, e quindi erano sempre irrequieti. Tentavano spesso delle fughe, molte volte isolate. Presto l’idea di dividere con loro le nostre armi già scarse e non molto buone, a molti non piacque più.
Noi cercavamo di rassicurarli, ma loro continuavano a scappare. Alcuni tornavano da soli, ma erano pochissimi. I più dovevamo andarli a riprenderli noi. Tenevamo con loro, a turno, anche un uomo della nostra formazione. Una notte ci scapparono tutti assieme. Passò qualche ora prima che ce ne potessimo rendere conto. Tutta la formazione fu allarmata e messa alla loro ricerca. Partimmo per le ricerche che il cielo cominciava a tingerli dei primi violacei colori dell’alba.
Ci dividemmo in tanti piccoli gruppi perché non sapevamo dove potevano essere andati. Quando riuscimmo a trovarli e a ricondurli a Regli, quelli che ormai noi consideravamo nostri prigionieri, era il mattino seguente.
I nostri rapporti con loro si deteriorarono molto presto. Era impossibile una loro utilizzazione, quanto una loro integrazione nella formazione, sia per la loro indisciplina che per i chiari motivi di lingua. Anche con il ragazzino russo non era semplice farsi intendere, spesso gli conveniva far finta di non capire. Comunque, a dire il vero, non c’è mai stato un particolare bisogno di loro.
I compiti della nostra formazione erano soprattutto di pattuglia, e loro ci avrebbero fatto comodo solo nel caso in cui avremmo dovuto eseguire un’azione piuttosto grossa ed impegnativa.
I disertori oltre alla sicurezza avevano un solo altro problema, la fame. Non ci misero molto ad imparare le vie che seguivano le loro vivande per arrivare. Impararono presto la strada per la casa del Gori, che era lì vicino, e dove veniva preparato quasi tutto il loro cibo. Cominciarono ad andarci. Si presentavano da soli, anche fuori gli orari del vettovagliamento, e pretendevano altro cibo.
Qualcuno di noi mal sopportava quella situazione. Dopo ogni marachella, se così si possono chiamare i loro continui tentativi di fuga, la continua negligenza nei confronti dei nostri ordini, le intrusioni nella casa del Gori e quanto altro facevano contro la nostra volontà, c’era quasi sempre una discussione molto accesa.
Ci s’arrabbiava molto, e qualcuno avrebbe anche voluto usare la violenza nei loro confronti. La situazione ogni volta sembrava precipitare, ma per fortuna non accadde mai niente di grave. Non siamo mai andati oltre le minacce
Una volta mi ci avvelenai anch’io, e li minacciai dicendogli:
Se continuate a non stare alle regole vedrete che da Stalin vi ci rispediamo in cassetta! —.
E il ragazzino, sempre con quell’aria quasi strafottente, in risposta ci chiese:
Cosa vuol dire “cassetta”? —.
Ma nessuno gli rispose, anzi seguitavamo a guardarli male, e lui continuava:
Cosa vuol dire “cassetta”? —.

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