venerdì 15 luglio 2011

portici bolognesi, story

Lunedì della scorsa settimana sono stato a Bologna.
Il treno è uscito da Firenze e subito si è infilato nelle colline. Venti minuti di buio ed ecco le case di Bologna.
L'alta velocità tra le due città oggi è un comodo metrò, che lascia appena il tempo di inseguire qualche pensiero.


Mi incammino dalla stazione verso il centro, verso via San felice.
Ho con me la mia macchina fotografica, ma è ancora nella sua borsa.
Percorro i portici e vedo, attorno a me, il fluire di uomini e donne in movimento.




Mi tornano in mente alcune scene di Lisbon Story. In quel film non c'erano immagini nuove, non c'erano scene ricostruite, anche la fotografia era piuttosto consueta. C'era un'aria di già avvenuto, già mostrato.
Anche qui, camminando sotto i portici, è come compiere un consapevole viaggio déjà-vu. La consuetudine del quotidiano spersonalizza. Non permette più all'occhio curioso di indagare, di entrare nei particolari. E' come se tutto fosse già visto.
Come se le persone che incontro siano anch'esse spersonalizzate, comparse che hanno un vestito colorato, che camminano, che sono lì solo perché la scena ha bisogno di presenze.


Tiro fuori la mia macchina fotografica, e mi chiedo come posso fare a dare corpo e personalità a queste comparse, che comparse non sono, perché, come me, stanno passando di lì per motivi loro.



Ripenso al film di Wenders, in esso c'è una citazione di Pessoa: "Io ascolto senza guardare e così vedo".
Dovrei inseguire anch'io una musica che esca da uno dei portoni, che mi faccia salire per entrare in una grande stanza, spoglia, dove qualcuno stia suonando?
Ma invece mi sento più vicino al protagonista, il tecnico del suono, mentre vaga registrando rumori e silenzi della città.
Ma più ancora mi sento vicino al suo amico regista, che, dopo aver girato le suggestive immagini in bianco e nero della città, di cui l'amico sta registrando il sonoro, per raccontare la città si è legato una videocamera dietro le spalle, e la tiene accesa vagando senza meta, per giorni e giorni.
Il suo scopo, aiutato da vari ragazzini, è di filmare, senza alcun intervento culturale, immagini in libertà che solo i posteri potranno apprezzare.




Così io prendo la mia macchina fotografica, la porto all'altezza della pancia, e con la pancia comincio a fotografare.
Indirizzo semplicemente l'obiettivo davanti a me, e scatto. Premo il pulsante ogni volta che la pancia lo chiede.




Nel film emerge che quel "filmare in libertà" è la negazione del cinema "puro", e che gli occhi dell'uomo e soprattutto la sua partecipazione emotiva ed affettiva rendono le immagini veramente vive.



Già, ed allora, io cosa ho fatto? ho negato la "fotografia pura"?





Le immagini di questo post, sono i primi 17 scatti realizzati, pubblicati così come realizzati, alcuni anche un po' storti...


E se invece avessi guardato dentro l'obiettivo?

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