Le foto che accompagneranno la ritrascrizione del racconto, "La Carovana del Re", non saranno quelle della collezione, sperse nella vecchia soffitta, e siccome fare la scansione di un retino (le foto stampate nella pubblicazione) non avrebbe senso, ho pensato di usare le foto che ho scattato oggi, raccogliendo immagini di "terra" della val d'orcia.
La pubblicazione "Terra", del 1994, mi fu presentata da Riccardo Cardellicchio.
Fa un certo effetto vedere la casa abbandonata sul crinale della collina e il fienile con il tetto crollato e, lungo il viottolo, un camion e un furgone abbandonati. Danno l'impressione della fuga improvvisa. Fuga senza ritorno da una terra che non riesce ad essere amica dell'uomo. O - meglio - che l'uomo non vuole che sia sua amica.
Terra di calanchi. Sinuosa. Terra di argille. Colline che mettono l'angoscia addosso (dentro), intravista tra il filo di ferro e il legno spezzato, improbabile confine di proprietà. Colline che vedranno il grano e allora saranno belle. Ma il bianco e nero - ora, stagione di arsura - mette in risalto il dolore, la sofferenza. Le crepe sembrano ferite profonde, inguaribili. E le zolle, escrescenze d'un male incurabile.
L'occhio di Aurelio Cupelli è implacabile. Indugia nel particolare. Lo ama. E lo inchioda. Ecco le radici di un cerro e le piccole tane delle lucertole (ci sono o ci sono state?). Ecco i fossili del nostro passato remoto.
Immagini crudeli, senza speranza? No, non lo sono. Sono il frutto di un amore profondo, alimentato dalla pratica quotidiana. Ed eccola lì, la speranza: oltre le zolle, affidata alla cima di un albero misterioso.
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(segue dal post di ieri)
Per quando ero fuori erano già trascorsi più di venti minuti, il sole era un pezzo sù, e l'aria immobile e chiara del mattino estivo si stava già riscaldando. Mi misi ad aspettare Giuseppe, ci eravamo dati appuntamento. Sarebbe passato di lì con la sua motocicletta e mi avrebbe accompagnato a Castello, da buon amico.
Nel silenzio di quel mondo in abbandono, lo scoppiettare del motore della Guzzi grigioverde di Giuseppe lo sentii molto prima di poterlo vedere. Dall'orlo delle colline di Santo Stefano vidi levarsi e muoversi una bassa e densa nuvola di polvere che si allungava in una morbida scia, che poi si dissolveva con velocità. La polvere si nascondeva ed usciva, rimarcando la strada sinuosa che veniva fino a casa.
Il sole aveva arroventato presto l'avara argilla di quella terra, e la mia fronte si era già inumidita di sudore. Tirai fuori il fazzoletto e me l'asciugai. Giuseppe mi salutò appena mi vide, dopo l'ultima curva dietro al colmo della mia collina. Alzò il braccio mentre stava svoltando. Risposi subito al suo saluto, sventolando il fazzoletto che avevo in mano.
Giuseppe arrivò in piena velocità, e per fermarsi bloccò di colpo le ruote della sua moto, che sbandò su di un fianco, sotto il suo controllo. Si fermò di traverso ad un passo da me, e venne sorpassato dal polverone che si era trascinato dietro per tutta la strada.
Salii immediatamente, e Giuseppe ripartì. In motocicletta l'aria sembrava più fresca, l'immobilità del mattino estivo si era mutata in una brezza che variava di intensità a seconda della nostra velocità. I miei occhi dovevano osservare la strada stando socchiusi, infastiditi dal vento e dalla polvere.
(continua nel post di domani)
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